Inaugurazione della nuova sezione del Museo Tazzetti

I culti in ambiente alpino dalla preistoria all’età moderna
Prima sede del Museo Diffuso di Arte Sacra della Valle di Viù

Sabato 1 agosto 2015, ore 15.30
Museo Civico “Arnaldo Tazzetti” di Usseglio 

La realizzazione del nuovo spazio espositivo, che accoglie importanti oggetti d’arte e reperti archeologici provenienti dal territorio ussegliese, è il primo importante passo per la creazione del MUSEO DIFFUSO D’ARTE SACRA DELLA VALLE DI VIÙ, realizzato nell’ambito del progetto LUNGO LA STURA DI VIÙ.

L’allestimento si articola cronologicamente in quattro sezioni – PREISTORIA E PROTOSTORIA, ETÀ ROMANA, MEDIOEVO, ETÀ MODERNA – accompagnando il visitatore alla scoperta delle forme cultuali storiche di questa zona delle Alpi Graie. In esposizione, reperti del Neolitico e dell’età del Bronzo rinvenuti a partire dall’Ottocento a Usseglio e Viù; documentazione relativa all’importante sito rituale del Ròch dij Gieugh (pietra dei giochi), oggetto di recenti studi che ne hanno messo in luce l’importanza nel contesto delle Alpi occidentali; due altari votivi romani dedicati a Ercole e a Giove; un altorilievo del XV secolo rappresentante San Bernardo di Mentone ma noto come “Druida di Malciaussia in seguito a un’errata interpretazione; dipinti del XVI e XVIII secolo che, fino alla metà del Novecento, facevano parte dell’arredo pittorico dell’Antico Complesso Parrocchiale.

Il paesaggio meraviglioso e insieme terrifico della montagna è stato sentito, fin dalla più remota antichità, come luogo privilegiato di manifestazione del divino. Il Rocciamelone (3537 m s.l.m.) fu considerato un monte sacro già millenni prima del trittico di Bonifacio Rotario del 1358 e della statua della Vergine eretta nel 1899. Da nordest il massiccio è aggirato da un sentiero che collega la valle con il colle dell’Autaret (3077 m s.l.m.), ricalcando un antico percorso che arrivava almeno fino a 1800 m s.l.m., dove la località di Malciaussia deriva forse il nome dal latino [via] male calciata (strada mal pavimentata). Questo sentiero fu frequentato almeno dal II millennio a.C., come testimoniano alcune deposizioni votive di armi in bronzo.

Strettamente collegato con l’importanza delle strade e dei valichi della zona è anche il più diffuso dei culti femminili di sostrato celtico, quello delle Matres o Matronae, rozzamente scolpite ad alto rilievo su un masso del Tuberghengo di Viù, usato in età moderna per un torchio da noci.
In piena età romana importanti attestazioni cultuali ancora legate ai transiti sono rappresentate da due altari votivi dedicati a Giove e a Ercole.
Nel Basso Medioevo a protezione di Malciaussia fu posto nella cappella il rilievo raffigurante San Bernardo da Mentone, particolarmente venerato dai viaggiatori che attraversavano i passi alpini.

Senso della sacralità dei luoghi e memoria della loro antichissima frequentazione sono all’origine di alcune leggende locali, come quella dell’anno Mille, tramandata dal Chronicon Novaliciense, secondo cui in una grotta presso la cima del Rocciamelone il leggendario lebbroso re Romolo aveva nascosto il suo immenso tesoro, protetto da una pioggia di pietre che investiva chi tentava di raggiungerlo.
Già gli antichi Greci e Romani interpretavano come pietre cadute dal cielo, portate dal fulmine, le asce in pietra levigata usate nel Neolitico e ancora cento anni fa i contadini piemontesi le chiamavano pere dël tron (pietre del tuono) o cov dla lòsna (coti del fulmine). Un sito di lavorazione di questi strumenti, datato tra il 5000 e il 4000 a.C., è stato individuato agli inizi del secolo scorso al Castello di Versino a Viù, ma della ricca collezione, distrutta durante la Seconda Guerra Mondiale, rimangono solamente due asce.

Un’altra leggenda raccolta nel XIX secolo raccontava invece che tra le cima della Lera e della Rossa giacessero anime di defunti condannati a scavare il ghiaccio con lunghi aghi per poter ascendere in Paradiso. Secondo una suggestiva ipotesi potrebbe trattarsi del ricordo del rinvenimento di cadaveri dell’età del Bronzo con abiti chiusi da lunghi spilloni, conservati tra le nevi come il celebre uomo del Similaun: echi remoti delle sciagure della montagna, talvolta inevitabili nonostante le preghiere rivolte attraverso i secoli agli antenati, agli dei, ai santi e alla Vergine.